La guerra in Siria è ormai incentrata alla conquista o liberazione (a seconda dei punti di vista) del fronte orientale, e cioè della terra che divide l’Iraq dalla Siria. Una striscia di terra di importanza fondamentale, perché lì restano i bastioni dell’Isis e lì si snoda il corridoio che collega l’Iraq alla Siria, i due Stati vittime della tragedia dello Stato Islamico. Il raggiungimento dell’accordo sulle zone di de-escalation in alcune parti del territorio siriano, ha permesso nelle ultime settimane all’esercito siriano di concentrare i propri sforzi sul fronte meridionale e sudorientale della guerra al Califfato. Qui, in particolare nei pressi del confine siro-giordano e, soprattutto, sulle rotte che collegano la Siria all’Iraq, infuria la guerra. Una guerra che non è più soltanto tra Isis e suoi avversari, ma un vero e proprio laboratorio sul futuro della Siria alla fine della guerra.
In questi giorni, il sudest della Siria si sta trasformando, infatti, in una resa dei conti su chi dovrà avere il potere di decidere il futuro del regime di Damasco. Da una parte, l’esercito siriano combatte ribelli e Isis, dall’altra, i ribelli, supportati dalle potenze arabe ed occidentali, colpiscono sia l’esercito di Bashar Assad sia le milizie islamiste. Un laboratorio di spartizione della Siria in cui le forze speciali russe, iraniane, britanniche, statunitensi e arabe sono impegnate nell’aiutare formalmente ciascuna la propria fazione, ma che in realtà cercano di colpire più l’avversario del fronte della guerra civile piuttosto che lo Stato Islamico. Il Califfato ha le ore contate, i suoi territori si assottigliano e la linea del fronte diventa ogni giorno più stretta intorno alle ultime roccaforti del Daesh. La corsa alla conquista di Raqqa e Deir Ezzor, capitali propagandistiche dell’esercito dello Stato Islamico, rappresenta l’emblema di una corsa verso chi avrà il comando delle operazioni di ricostruzione della Siria una volta terminata la guerra con gli islamisti.
L’avanzata di Damasco, supportata dalle forze russe e sciite, sia iraniane sia libanesi, si volge ora al confine con l’Iraq, dopo che è riuscita a prendere di nuovo il controllo della frontiera meridionale con la Giordania. Lo scopo ora è raggiungere l’Eufrate e prendere possesso del tracciato dell’autostrada n.2, la via di collegamento fra Baghdad e Damasco. Questo è lo scopo della cosiddetta operazione Lavender, dal nome del colonnello ucciso dallo Stato Islamico, fraterno collaboratore del generale Zarheddine. Una campagna in cui l’esercito siriano sta impiegando ogni sforzo possibile e in cui le forze speciali, in particolare russe, stanno dando un aiuto fondamentale contro i ribelli della Free Syrian Army appoggiate dell’aviazione della coalizione internazionale e dalle forze speciali angloamericane.
Un aiuto a Damasco potrebbe arrivare proprio dal Paese del quale vuole raggiungere il confine: l’Iraq. Pochi giorni fa, il ministro dell’Interno del governo di Baghdad, Qasim Al Araji, ha affermato che non accetteranno alcun tipo di zona cuscinetto tra Siria e Iraq. Un’affermazione la cui portata è tutt’altro che minima. Il governo iracheno, che ha avuto il supporto occidentale nella liberazione di Mosul in particolare ma in generale per tutto il territorio del Paese occupato dalle forze dello Stato Islamico, si pensava che avrebbe accettato le direttive sulle zone cuscinetto promosse dall’Occidente. Invece, le parole di Al Araji giungono come una scure sulle idee occidentali e persiche.
Il motivo di questa presa di posizione del ministro iracheno può essere però rinvenuta proprio in quella stessa guerra culturale che sta sconvolgendo il Medio Oriente, e cioè quella fra forze sciite e sunnite. Al Araji proviene dalla fazione Badr, sciita, che è finanziata e addestrata dalle forze iraniane. Badr appartiene anzi proprio al raggruppamento sciita (PMU) che da subito si è sollevato contro la ribellione islamista di matrice sunnita che ha sconvolto l’Iraq negli anni precedenti. Il fatto che l’Iraq venga sempre più coordinato dalle forze sciite del Paese rappresenterebbe una sconfitta eclatante per tutto il sistema della Coalizione internazionale. Da una parte, l’Iran guadagnerebbe un alleato eccezionale, rendendo, di fatto, ancora possibile quella “mezzaluna sciita” che è l’incubo dell’Occidente, di Israele e delle potenze arabe. Dall’altra parte, il governo di Bashar Assad troverebbe un supporto decisivo nella conquista della Siria e nell’isolamento dei ribelli della Free Syrian Army, perché un Iraq contrario alle zone-cuscinetto toglierebbe alle potenze alleate dei ribelli una base territoriale e logistica su cui fondare questo progetto di terra di nessuno, che è la stessa su cui si erge finora lo Stato Islamico. Ancora una volta, a quanto pare, più che gli eserciti stranieri, a decidere le sorti della guerra sono le divisioni del mondo islamico: se gli sciiti iracheni riusciranno a spezzare l’equilibrio in favore di Teheran e Damasco, le cose, per la Coalizione internazionale e i ribelli siriani saranno molto più complesse.