Affari in vista per gli istituti geografici, per i cartografi, e per la vecchia gloriosa Consociazione Turistica Italiana, che saranno costretti, per l’ennesima volta, a ristampare ex novo le cartine del Vecchio Continente. E anche i consulenti politici dei geografi avranno il loro gran daffare nello stabilire come e quando modificare le mappe, i confini, i colori. Quale sarà il parametro? Il riconoscimento internazionale unanime? E se questo non fosse presente? Si terrà conto della posizione dell’Onu? O si preferirà il criterio nazionale, allineato al riconoscimento da parte della Repubblica italiana? La Crimea neo-indipendente avrà diritto a un suo confine sulle mappe? E il Kosovo? Si sarà meritato una colorazione diversa da quella della Serbia? Ma facciamo un passo indietro.
Era il 1997 e – essendo dismessa la linea ferroviaria – solo un vecchio autobus portava a Mostar, in Bosnia ed Erzegovina, dal porto adriatico di Spalato, assecondando la linea scoscesa delle Alpi dinariche. La guerra, finita da poco, aveva lasciato uno scenario desolante sulle colline erzegovesi: case senza tetto, muri crivellati, strade dissestate. Per un giovane neofita del mondo balcanico l’attesa del confine, in questo caso tra Croazia e Bosnia, era snervante: erano oramai anni che la stampa e i telegiornali ci avevano abituati a pensare alle linee di demarcazione nell’ex-Jugoslavia come a barriere impenetrabili, filo spinato, cavalli di frisia.
Quel confine tanto atteso non arrivò mai. Ben tracciato sulle mappe, era invece – su quella strada solcata da vecchie “zastava” – completamente impercettibile. Né un cartello, né una guardiola, né un posto di blocco; solo un gesto di un poliziotto, che con la mano faceva cenno di circolare e di lasciar scorrere il traffico. Si transitava dalla Croazia alla zona croata della Bosnia, la “Federazione”, e i due lati del confine erano identici: stesse bandiere al vento, stessa moneta, stesse divise, stesse scritte sui muri. Il confine di Stato era una mera espressione cartografica.
Diverso copione, pochi giorni dopo, durante il viaggio per Banja Luka, nella seconda entità territoriale della Bosnia ed Erzegovina, la Republika Srpska. Attraversando la “linea di Dayton”, ufficialmente nulla più che un confine amministrativo ma fortificato e presidiato come la cortina di ferro, tutto mutava: un’altra polizia, altri militari, altre bandiere, altra moneta, altro tutto.
Questa apparente assurdità, conosciuta nel mondo col nome di Bosnia, uno Stato con tre parlamenti, tre valute, tre polizie, tre eserciti, due alfabeti, aveva in realtà un senso ben preciso. Agli inizi degli anni Novanta, il fenomeno del secessionismo e dell’indipendentismo centrifughi che riguardarono l’oriente europeo, e nella fattispecie l’Unione Sovietica, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, al di là di ogni valutazione di ordine storico e soprattutto politico, si svolsero secondo un criterio ben preciso e ragionato nel senso di ottenere un “male minore” o comunque di non scatenare una situazione di anarchia che avrebbe reso ingestibile la turbolenta situazione anche da parte degli attori politico-internazionali più votati alla destabilizzazione.
Era lo spirito, che ancora aleggiava sull’Europa, generato tre secoli prima dalla Pace di Westfalia, dagli accordi che posero fine a una serie di conflitti europei facendo leva sul trattato tra Stati che si riconoscevano tra loro proprio in quanto tali, dando vita a un concetto di sovranità che riuscì a giungere indenne fino alla fine del Novecento. Figlia dell’ordine westfaliano era quindi una sorte di sacralità dei confini nazionali la cui violazione avrebbe compromesso un equilibrio messo in discussione solo da eventi bellici di rilevanza “epica” e che in tempo di pace avrebbe garantito un ordine fondato sul riconoscimento (pur se talvolta formale) della sovranità reciproca all’interno delle proprie frontiere.
Tornando a quei turbolenti anni Novanta, in ossequio al pur residuale senso generale di rispetto dell’autorità degli Stati, le spinte secessioniste in alcune delle “democrazie popolari” europee fu connotata dal riconoscimento del diritto all’autodeterminazione solo ed esclusivamente a quelle entità territoriali che erano state “repubbliche federate” di nazioni federali, escludendo quindi le entità territoriali che per varie ragioni godevano di un minor grado di autonomia quali le “province autonome” jugoslave e gli “oblast” e le “repubbliche autonome” sovietiche.
Se la Croazia o la Bosnia, ad esempio, repubbliche federate della Jugoslavia socialista, poterono dichiarare la propria indipendenza, lo stesso diritto non poteva essere concesso alla “provincia autonoma socialista” del Kosovo, o – in ambito sovietico – a fronte dell’indipendenza delle repubbliche federate costituenti l’Unione quali ad esempio l’Ucraina, il Kazachstan o la stessa Russia, si assistette alla permanenza della “repubblica autonoma” di Cecenia nella Federazione Russa e di quella di Crimea sotto il controllo di Kiev; tutto ciò anche nei momenti in cui la figura a dir poco controversa del presidente Elcin esortava tutte le entità territoriali a “prendersi più autonomia possibile”.
Già, la Crimea. Secondo le cronache e le analisi politiche di questi ultimi giorni, si sarebbe quindi in presenza di una patente violazione del diritto alla sovranità dell’Ucraina in ragione dell’affermazione dell’indipendenza si Simferopoli da Kiev. Una violazione di cui, ça va sans dire, è stata incolpato un non meglio specificato “imperialismo” russo, una volontà di prevaricazione del diritto internazionale da parte di Mosca, ipotesi ovviamente condite con le consuete accuse di “zarismo” o “sovietismo”, a seconda della platea, nei confronti del presidente Putin. In prima fila sul banco degli accusatori, naturalmente, gli Stati Uniti. Seguono a ruota, percorrendo in discesa tutti i gradini del vassallaggio, l’Unione Europea, l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, la Polonia, l’Albania, a scendere fino ai “valvassini” del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Come sovente accade nel periodo storico in cui è la norma il capovolgimento della verità e della menzogna, tali accuse risultano con ogni evidenza infondate, come dimostrato da quattro precise e circostanziate considerazioni.
Per prima, una considerazione di ordine politico. Innanzitutto l’indipendenza della Repubblica di Crimea è stata sancita da un voto parlamentare e da un referendum in cui i voti favorevoli alla secessione sono stati oltre il 95% del totale, come era naturale che fosse in una nazione di lingua, cultura, storia e tradizioni russe, che tra l’altro della Russia (all’epoca Repubblica Socialista Federativa Sovietica) aveva fatto parte solo fino agli anni Cinquanta. E come era naturale che fosse a fronte delle posizioni marcatamente anti-russe subito manifestate dal nuovo governo golpista di Kiev, anti-russe non solo nei termini di allineamento internazionale, ma anche orientate nel senso di una violenta discriminazione etnica. Ricordiamo che appena entrati nei palazzi del potere, gli insorti filo-occidentali hanno subito proposto l’abolizione della lingua russa quale seconda lingua ufficiale dello Stato, in un contesto in qui questa viene riconosciuta come madrelingua dal 30% della popolazione e più del 50% la parla e la utilizza correntemente.
Poi, per una considerazione di ordine geo-strategico. Il golpe ucraino è stato fin dal principio marchiato a fuoco dalle più evidenti connotazioni filo-statunitensi, filo-Ue e filo-occidentali tout court. L’aperto sostegno morale e materiale degli Stati Uniti era un fatto alla luce del sole, il senatore McCain si è recato, dimostrando uno scarso senso diplomatico che sfociava nella strafottenza, in visita di Stato a Kiev per incontrare gli oppositori mentre questi già mettevano a ferro e fuoco la città. Sulle barricate di piazza Maidan sono apparse bandiere a stelle e strisce, quelle dell’Unione (bancaria) europea, finanche quelle sioniste e dei terroristi siriani. Appena insediatosi, il nuovo governo si è lanciato a testa bassa nelle mani di Washington e nelle grinfie della Nato. Ed è pertanto evidente che a Mosca, e tra la popolazione russa d’Ucraina, questa tendenza non poteva essere tollerata, configurando l’evidente rischio di vedere la sua maggiore potenza antagonista spingersi fin quasi sotto le mura del Cremlino.
Inoltre, per una constatazione puramente logica. Se il meccanismo “westfaliano” che ha regolato i secessionismi dei primi anni Novanta si fondava sul riconoscimento dell’indipendenza alle repubbliche federate componenti degli Stati, non si vede perché tale sistema – a meno di non voler credere alla storiella della “cristallizzazione” della società – non debba funzionare con la logica delle “scatole cinesi”, e trovare quindi applicazione anche in Stati che già, a loro volta, ne avevano beneficiato. Ciò che valse per l’Ucraina nei confronti dell’Urss, a rigor di logica, deve valere anche per la Crimea nei confronti dell’Ucraina.
Infine, ultima ma non in ordine di importanza, una considerazione di naturagiuridica. Se è vero che in giurisprudenza il “precedente” ha un valore “persuasivo” quando non è addirittura fonte del diritto, il precedente del Kosovo non può essere sottaciuto. All’epoca furono proprio gli Stati Uniti, che ora si stracciano le vesti per denunciare l’illegittimità del referendum di Crimea, a premere sull’acceleratore della secessione di Priština dalla Serbia di cui, ricordiamolo, era una provincia. E si badi, la situazione era ben più grave di quella attuale: innanzitutto la spinta indipendentista era stata esasperata con una violenta guerra d’aggressione che vedeva proprio negli Usa e nella Nato i principali protagonisti; il referendum per l’indipendenza avvenne in un territorio in cui la presenza serba era stata ridotta al lumicino da un lungo processo di pulizia etnica in seguito al quale la gran parte dei serbi del Kosovo fu costretta a rifugiarsi nella Serbia interna; inoltre, l’appartenenza del Kosovo alla Federazione Jugoslava (ora disciolta, ma di cui la Serbia ha raccolto giuridicamente l’eredità) era stata sancita non solo dagli “accordi di Kumanovo” che posero fine alle ostilità ma addirittura dalla risoluzione n. 1244 delle Nazioni Unite che stabiliva, senza possibilità di equivoco, la “sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica federale di Jugoslavia”, comprensiva quindi della sua “provincia ribelle”.
E’ stato detto e ripetuto: furono gli Stati Uniti e l’Occidente a scoperchiare il vaso di Pandora con l’indipendenza kosovara. Furono gli Stati Uniti che innescarono un meccanismo perverso di ribaltamento dell’ordine internazionale che pensavano di poter utilizzare a loro favore e che invece gli si sta ritorcendo contro. E’ a causa degli Usa che vedrà la luce, nostro malgrado, un periodo di caos geopolitico caratterizzato dal mancato riconoscimento incrociato dell’autonomia e della sovranità di popoli e nazioni. E’ d’altronde questa la loro natura, è questo il frutto della loro cieca (mala)fede millenarista di dominio planetario. Ed è dalle sconfitte che ne scaturiranno che si realizzerà, per gli Stati Uniti, un certamente lento – ma altrettanto certamente ineludibile – declino.
Era il 1997 e – essendo dismessa la linea ferroviaria – solo un vecchio autobus portava a Mostar, in Bosnia ed Erzegovina, dal porto adriatico di Spalato, assecondando la linea scoscesa delle Alpi dinariche. La guerra, finita da poco, aveva lasciato uno scenario desolante sulle colline erzegovesi: case senza tetto, muri crivellati, strade dissestate. Per un giovane neofita del mondo balcanico l’attesa del confine, in questo caso tra Croazia e Bosnia, era snervante: erano oramai anni che la stampa e i telegiornali ci avevano abituati a pensare alle linee di demarcazione nell’ex-Jugoslavia come a barriere impenetrabili, filo spinato, cavalli di frisia.
Quel confine tanto atteso non arrivò mai. Ben tracciato sulle mappe, era invece – su quella strada solcata da vecchie “zastava” – completamente impercettibile. Né un cartello, né una guardiola, né un posto di blocco; solo un gesto di un poliziotto, che con la mano faceva cenno di circolare e di lasciar scorrere il traffico. Si transitava dalla Croazia alla zona croata della Bosnia, la “Federazione”, e i due lati del confine erano identici: stesse bandiere al vento, stessa moneta, stesse divise, stesse scritte sui muri. Il confine di Stato era una mera espressione cartografica.
Diverso copione, pochi giorni dopo, durante il viaggio per Banja Luka, nella seconda entità territoriale della Bosnia ed Erzegovina, la Republika Srpska. Attraversando la “linea di Dayton”, ufficialmente nulla più che un confine amministrativo ma fortificato e presidiato come la cortina di ferro, tutto mutava: un’altra polizia, altri militari, altre bandiere, altra moneta, altro tutto.
Questa apparente assurdità, conosciuta nel mondo col nome di Bosnia, uno Stato con tre parlamenti, tre valute, tre polizie, tre eserciti, due alfabeti, aveva in realtà un senso ben preciso. Agli inizi degli anni Novanta, il fenomeno del secessionismo e dell’indipendentismo centrifughi che riguardarono l’oriente europeo, e nella fattispecie l’Unione Sovietica, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, al di là di ogni valutazione di ordine storico e soprattutto politico, si svolsero secondo un criterio ben preciso e ragionato nel senso di ottenere un “male minore” o comunque di non scatenare una situazione di anarchia che avrebbe reso ingestibile la turbolenta situazione anche da parte degli attori politico-internazionali più votati alla destabilizzazione.
Era lo spirito, che ancora aleggiava sull’Europa, generato tre secoli prima dalla Pace di Westfalia, dagli accordi che posero fine a una serie di conflitti europei facendo leva sul trattato tra Stati che si riconoscevano tra loro proprio in quanto tali, dando vita a un concetto di sovranità che riuscì a giungere indenne fino alla fine del Novecento. Figlia dell’ordine westfaliano era quindi una sorte di sacralità dei confini nazionali la cui violazione avrebbe compromesso un equilibrio messo in discussione solo da eventi bellici di rilevanza “epica” e che in tempo di pace avrebbe garantito un ordine fondato sul riconoscimento (pur se talvolta formale) della sovranità reciproca all’interno delle proprie frontiere.
Tornando a quei turbolenti anni Novanta, in ossequio al pur residuale senso generale di rispetto dell’autorità degli Stati, le spinte secessioniste in alcune delle “democrazie popolari” europee fu connotata dal riconoscimento del diritto all’autodeterminazione solo ed esclusivamente a quelle entità territoriali che erano state “repubbliche federate” di nazioni federali, escludendo quindi le entità territoriali che per varie ragioni godevano di un minor grado di autonomia quali le “province autonome” jugoslave e gli “oblast” e le “repubbliche autonome” sovietiche.
Se la Croazia o la Bosnia, ad esempio, repubbliche federate della Jugoslavia socialista, poterono dichiarare la propria indipendenza, lo stesso diritto non poteva essere concesso alla “provincia autonoma socialista” del Kosovo, o – in ambito sovietico – a fronte dell’indipendenza delle repubbliche federate costituenti l’Unione quali ad esempio l’Ucraina, il Kazachstan o la stessa Russia, si assistette alla permanenza della “repubblica autonoma” di Cecenia nella Federazione Russa e di quella di Crimea sotto il controllo di Kiev; tutto ciò anche nei momenti in cui la figura a dir poco controversa del presidente Elcin esortava tutte le entità territoriali a “prendersi più autonomia possibile”.
Già, la Crimea. Secondo le cronache e le analisi politiche di questi ultimi giorni, si sarebbe quindi in presenza di una patente violazione del diritto alla sovranità dell’Ucraina in ragione dell’affermazione dell’indipendenza si Simferopoli da Kiev. Una violazione di cui, ça va sans dire, è stata incolpato un non meglio specificato “imperialismo” russo, una volontà di prevaricazione del diritto internazionale da parte di Mosca, ipotesi ovviamente condite con le consuete accuse di “zarismo” o “sovietismo”, a seconda della platea, nei confronti del presidente Putin. In prima fila sul banco degli accusatori, naturalmente, gli Stati Uniti. Seguono a ruota, percorrendo in discesa tutti i gradini del vassallaggio, l’Unione Europea, l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, la Polonia, l’Albania, a scendere fino ai “valvassini” del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Come sovente accade nel periodo storico in cui è la norma il capovolgimento della verità e della menzogna, tali accuse risultano con ogni evidenza infondate, come dimostrato da quattro precise e circostanziate considerazioni.
Per prima, una considerazione di ordine politico. Innanzitutto l’indipendenza della Repubblica di Crimea è stata sancita da un voto parlamentare e da un referendum in cui i voti favorevoli alla secessione sono stati oltre il 95% del totale, come era naturale che fosse in una nazione di lingua, cultura, storia e tradizioni russe, che tra l’altro della Russia (all’epoca Repubblica Socialista Federativa Sovietica) aveva fatto parte solo fino agli anni Cinquanta. E come era naturale che fosse a fronte delle posizioni marcatamente anti-russe subito manifestate dal nuovo governo golpista di Kiev, anti-russe non solo nei termini di allineamento internazionale, ma anche orientate nel senso di una violenta discriminazione etnica. Ricordiamo che appena entrati nei palazzi del potere, gli insorti filo-occidentali hanno subito proposto l’abolizione della lingua russa quale seconda lingua ufficiale dello Stato, in un contesto in qui questa viene riconosciuta come madrelingua dal 30% della popolazione e più del 50% la parla e la utilizza correntemente.
Poi, per una considerazione di ordine geo-strategico. Il golpe ucraino è stato fin dal principio marchiato a fuoco dalle più evidenti connotazioni filo-statunitensi, filo-Ue e filo-occidentali tout court. L’aperto sostegno morale e materiale degli Stati Uniti era un fatto alla luce del sole, il senatore McCain si è recato, dimostrando uno scarso senso diplomatico che sfociava nella strafottenza, in visita di Stato a Kiev per incontrare gli oppositori mentre questi già mettevano a ferro e fuoco la città. Sulle barricate di piazza Maidan sono apparse bandiere a stelle e strisce, quelle dell’Unione (bancaria) europea, finanche quelle sioniste e dei terroristi siriani. Appena insediatosi, il nuovo governo si è lanciato a testa bassa nelle mani di Washington e nelle grinfie della Nato. Ed è pertanto evidente che a Mosca, e tra la popolazione russa d’Ucraina, questa tendenza non poteva essere tollerata, configurando l’evidente rischio di vedere la sua maggiore potenza antagonista spingersi fin quasi sotto le mura del Cremlino.
Inoltre, per una constatazione puramente logica. Se il meccanismo “westfaliano” che ha regolato i secessionismi dei primi anni Novanta si fondava sul riconoscimento dell’indipendenza alle repubbliche federate componenti degli Stati, non si vede perché tale sistema – a meno di non voler credere alla storiella della “cristallizzazione” della società – non debba funzionare con la logica delle “scatole cinesi”, e trovare quindi applicazione anche in Stati che già, a loro volta, ne avevano beneficiato. Ciò che valse per l’Ucraina nei confronti dell’Urss, a rigor di logica, deve valere anche per la Crimea nei confronti dell’Ucraina.
Infine, ultima ma non in ordine di importanza, una considerazione di naturagiuridica. Se è vero che in giurisprudenza il “precedente” ha un valore “persuasivo” quando non è addirittura fonte del diritto, il precedente del Kosovo non può essere sottaciuto. All’epoca furono proprio gli Stati Uniti, che ora si stracciano le vesti per denunciare l’illegittimità del referendum di Crimea, a premere sull’acceleratore della secessione di Priština dalla Serbia di cui, ricordiamolo, era una provincia. E si badi, la situazione era ben più grave di quella attuale: innanzitutto la spinta indipendentista era stata esasperata con una violenta guerra d’aggressione che vedeva proprio negli Usa e nella Nato i principali protagonisti; il referendum per l’indipendenza avvenne in un territorio in cui la presenza serba era stata ridotta al lumicino da un lungo processo di pulizia etnica in seguito al quale la gran parte dei serbi del Kosovo fu costretta a rifugiarsi nella Serbia interna; inoltre, l’appartenenza del Kosovo alla Federazione Jugoslava (ora disciolta, ma di cui la Serbia ha raccolto giuridicamente l’eredità) era stata sancita non solo dagli “accordi di Kumanovo” che posero fine alle ostilità ma addirittura dalla risoluzione n. 1244 delle Nazioni Unite che stabiliva, senza possibilità di equivoco, la “sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica federale di Jugoslavia”, comprensiva quindi della sua “provincia ribelle”.
E’ stato detto e ripetuto: furono gli Stati Uniti e l’Occidente a scoperchiare il vaso di Pandora con l’indipendenza kosovara. Furono gli Stati Uniti che innescarono un meccanismo perverso di ribaltamento dell’ordine internazionale che pensavano di poter utilizzare a loro favore e che invece gli si sta ritorcendo contro. E’ a causa degli Usa che vedrà la luce, nostro malgrado, un periodo di caos geopolitico caratterizzato dal mancato riconoscimento incrociato dell’autonomia e della sovranità di popoli e nazioni. E’ d’altronde questa la loro natura, è questo il frutto della loro cieca (mala)fede millenarista di dominio planetario. Ed è dalle sconfitte che ne scaturiranno che si realizzerà, per gli Stati Uniti, un certamente lento – ma altrettanto certamente ineludibile – declino.
Fonte: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=23165#sthash.5U7N8msN.dpuf
Commenta su Facebook