
Il primo è che, nella misura in cui i mutuatari nazionali hanno contratto prestiti in valuta estera, la svalutazione ha un effetto negativo sui bilanci e conduce ad una diminuzione della domanda interna che potrebbe più che compensare l’aumento delle esportazioni.
Il secondo è che gran parte della svalutazione nominale può semplicemente tradursi in una maggiore inflazione. Il terzo è che grandi movimenti del tasso di cambio possono portare a sconvolgimenti, sia nell’economia reale che nei mercati finanziari.
Il terzo argomento rimane comunque rilevante. Ed è per questo che le banche centrali nei paesi emergenti non hanno adottato un regime di cambi fluttuanti puro, ma dei “cambi manovrati“, ossia l’uso congiunto della politica dei tassi di interesse, di interventi sui mercati valutari, misure macro-prudenziali e controlli sui capitali. Questo ha permesso loro di ridurre il vecchio dilemma che sorge quando l’unico strumento utilizzato è la politica dei tassi: un aumento dei tassi può evitare il surriscaldamento associato agli afflussi di capitali, ma allo stesso tempo può rendere ancora più attraente investire per gli investitori stranieri. L’intervento sul mercato dei cambi, i controlli sui capitali e strumenti prudenziali macro possono, almeno in linea di principio, limitare le fluttuazioni del tasso di cambio, e gli sconvolgimenti nel sistema finanziario senza ricorrere alla politica sui tassi di interesse.
I Paesi hanno utilizzato tutti questi strumenti durante questa crisi. Alcuni si sono affidati maggiormente ai controlli sui movimenti di capitali, alcuni sull’intervento nei mercati valutari. E i dati, sia quelli presentati alla conferenza, sia quelli elaborati dal FMI, suggeriscono che questi strumenti hanno funzionato, anche se non perfettamente. Guardando avanti, la sfida evidente (e formidabile) è capire come combinarli al meglio. […]