La riconferma elettorale di Obama alla presidenza degli Stati Uniti, deve indurre a riflettere sulle conseguenze politiche e strategiche di questo risultato e sul significato che essa riveste nel contesto internazionale. In un recente articolo, il leader comunista e politologo russo Gennadj Zjuganov, ha ricordato come non esista in realtà una seria differenza tra i due candidati in corsa per la poltrona più importante degli Stati Uniti e come ambedue siano espressione della stessa classe sociale e si propongano nelle vesti di funzionari pubblici di una medesima “macchina” politica, economica e militare.
Tuttavia è importante comprendere le ragioni che hanno portato Obama al successo. Anzitutto va osservato come questa volta, a differenza di quattro anni fa, il verdetto sia stato molto meno scontato. Fino alla notte del 6 novembre, lo sfidante repubblicano Mitt Romney ha avuto senz’altro molte più carte da giocarsi rispetto a John McCain, che accettò di partecipare ad una sfida quasi impossibile quattro anni prima. Gli Stati Uniti venivano, allora, da otto anni di amministrazione Bush, ossia da una fase in cui la spesa militare raggiunse livelli esorbitanti, per altro senza centrare gran parte degli obiettivi annunciati nel quadro della cosiddetta “Guerra al Terrore”, cominciata con l’operazione Enduring Freedom, in Afghanistan nell’ottobre 2001.
Con l’esplosione della bolla speculativa e il disastro finanziario del 2008, inoltre, la situazione economica interna al Paese aveva raggiunto un punto di non ritorno, dal quale l’elettorato statunitense ritenne di poter uscire soltanto affidandosi in massa al candidato democratico. In quella circostanza Obama rappresentava agli occhi del suo Paese un simbolo di speranza: un afro-americano integrato, sufficientemente liberale per ricevere consensi tra le upper class “raffinate e cosmopolite” del Nord, ma anche abbastanza proteso alle politiche sociali per ottenere i voti degli operai e delle masse più popolari del Sud. All’estero, inoltre, Obama rappresentava l’emblema di un ritorno al multilateralismo tendenziale dell’era Clinton, dopo otto anni di interventismo spinto e di riarmo generale. Tanto bastò per mandare in visibilio la quasi totalità della stampa nostrana, in particolare quei quotidiani e quei canali d’informazione che hanno l’ardire di definirsi “comunisti” o “socialisti”.
Tuttavia, gli obiettivi dichiarati sul piano internazionale non cambiarono di molto. Essi seguirono semplicemente altre direzionali strategiche. L’aggressione contro il Medio Oriente assunse una forma del tutto nuova nel contesto della fase unipolare, recuperando dagli anni Novanta il vecchio progetto neocoloniale del Great Middle East e rispolverando dal passato (su consiglio di un ritrovato Zbigniew Brzezinski) l’arma dell’inserimento nel mondo islamico, attraverso i rapporti più che privilegiati con la Turchia di Erdo?an e con le petromonarchie del Golfo, anzitutto Arabia Saudita e Qatar. Tutto ebbe il via tra il 2009 e il 2010, quando andarono in scena diverse manifestazioni di protesta in Iran, innescate da presunti brogli elettorali, immediatamente cavalcate dall’amministrazione statunitense per ingenerare un clima internazionale di boicottaggio contro il presidente Ahmadinejad, appena rieletto. La cosiddetta “rivoluzione verde”, ispirata ad un Islam “democratico” non meglio specificato, mise in grave difficoltà l’Iran, attentando per settimane la pace e la stabilità sociale di Tehran e di altre città minori.
Furono le prove generali per quel grande sommovimento interno al mondo islamico che un anno dopo avrebbe coinvolto i Paesi arabi nella loro globalità, nel tentativo di scalzare vecchie dirigenze politiche non più gradite e di installare nuovi regimi orientati verso l’Islam politico, oggi facilmente visibili in Tunisia, in Egitto e in Libia.
Non possiamo certo affermare che tutti i numerosi movimenti di protesta fossero manovrati dall’esterno, ed è lecito ritenere che in alcuni contesti specifici possano aver ricevuto l’appoggio di forze autenticamente popolari nel tentativo di imprimere una svolta migliorativa al corso politico del Paese. Tuttavia, i risultati ottenuti in questo presunto “risveglio islamico” sono ormai sotto gli occhi di tutti: in Libia, il crollo del governo di Gheddafi ha prodotto uno scenario devastante, che vede al-Qaeda tornare a guadagnare terreno in termini di rappresentatività politica; in Egitto, la Fratellanza Musulmana – un’organizzazione storicamente coinvolta nei principali progetti coloniali della Gran Bretagna e degli Stati Uniti – è riuscita ad eleggere un suo rappresentante alla presidenza della Repubblica; in Tunisia ha trionfato Ennhada, un partito politico speculare all’AKP turco di Erdo?an e Gül, che tuttavia non disdegna di coinvolgere i gruppi indigeni più estremisti.
Il ruolo del terrorismo è ovviamente palese anche in Siria, dove la stragrande maggioranza dei gruppi ai comandi del cosiddetto Esercito Libero Siriano è in realtà composta da miliziani mercenari provenienti da Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Yemen, Libia ed Egitto. Come ha scritto Maurizio Molinari su “La Stampa” del 26 giugno scorso, è assolutamente confermato che gli stipendi ai guerriglieri dell’Esercito Libero Siriano sono stati a lungo garantiti proprio dalla monarchia saudita e dall’emirato qatariota, mentre la portavoce del Dipartimento di Stato americano Victoria Nulland aveva tranquillamente ammesso la presenza di agenti della CIA nella Turchia meridionale con la missione di consegnare materiale logistico ai “ribelli” attivi oltre i confini.
Nulla di complottista né di immaginario, dunque. Nuda realtà di guerra. Sporca, imperialista, ma corrispondente ai fatti. Inoltre, stando ai dati forniti dal governo siriano, alcuni integralisti attivi in Siria proverrebbero anche dal Kosovo, dalla Cecenia, dal Dagestan e dallo Xinjiang. Proprio queste quattro regioni (una illegalmente indipendente, due russe e una cinese) sono state nuovamente sconvolte dall’integralismo islamico eterodosso che vi si è insediato in epoca moderna, proprio tra il 2011 e il 2012, dimostrando la netta intensificazione del terrorismo internazionale negli ultimi tre anni, un fenomeno che non può non essere correlato alla recente riacquisizione di forza strategica da parte delle monarchie wahabite di Riyad e di Doha.
Dall’Emirato del Qatar sono giunti progetti e investimenti di altissimo livello per conquistare spazi di mercato nei nuovi scenari nordafricani completamente sconvolti e modificati dalle cosiddette “primavere arabe”. Secondo il sito Arabian Business, a giugno la famiglia al-Thani avrebbe stanziato 18 miliardi di dollari per l’Egitto. Altri piani di investimento sarebbero già pronti per essere proposti ai nuovi governi della Libia e della Tunisia. Certamente, è difficile ritenere che una monarchia socialmente reazionaria, economicamente attiva soltanto grazie al petrolio, culturalmente fondata sull’estremismo e sul radicalismo religioso, possa investire tali cifre per promuovere “libertà” e “democrazia”.
Lo sviluppo economico di questi Paesi del Golfo, spesso esaltato da alcuni settori editoriali, industriali o finanziari occidentali, non corrisponde in alcun modo ad alcun piano di sviluppo politico e sociale. Questo rapido avanzamento internazionale del Qatar o degli Emirati Arabi Uniti, si configura chiaramente come un piano di modernizzazione parziale e limitato alla costruzione di faraonici impianti alberghieri, sportivi o ricreativi da sfruttare a scopi turistici per presentare ai visitatori occidentali uno scenario di benessere che, ben lungi dall’essere diffuso, coinvolge quasi esclusivamente la famiglia reale e i suoi sodali.
In Arabia Saudita la schiavitù fu cancellata nel 1962, ma si è sostanzialmente riprodotta attraverso il sistema della Kafala, un meccanismo di semischiavitù applicato alla manodopera straniera (cioè il 70% della manodopera complessiva), proveniente dalle più povere comunità islamiche dell’Asia e dell’Africa, senza considerare che il codice penale saudita prevede l’amputazione di mani o piedi per i ladri o la fustigazione per qualunque condotta ritenuta “sessualmente non conforme” (non si intende soltanto quella “omosessuale”), non consente la libertà di culto per le confessioni estranee all’Islam (con minime concessioni nel privato per i lavoratori stranieri) e non permette alle donne di circolare pubblicamente se sono sprovviste di un’integrale copertura o se si trovano alla guida di un’automobile.
Paradosso tra i paradossi, in Qatar attualmente è detenuto Mohammed al-Ajami, il poeta tunisino considerato l’ispiratore delle rivolte arabe, che sta pagando con la sua libertà personale il prezzo di ciò che ha inconsapevolmente contribuito ad innescare. Oggi al-Ajami è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza a Doha, dove sta scontando una pena a cinque anni di reclusione per aver insultato pubblicamente l’Emiro Sheikh Hamad bin Khalifa al-Thani, e dove rischia la pena di morte, che scatterebbe in base all’art. 130 del codice penale qatariota nel caso in cui venisse confermata l’accusa (ancor più grave) di aver promosso l’abbattimento della monarchia.
Nessuno sembra preoccuparsi di queste stridenti note stonate. Nemmeno Barack Obama che, dopo aver contribuito in modo determinante a produrre questo scenario geopolitico in Medio Oriente, si ripresenterà al mondo con un programma di politica estera che presumibilmente ripartirà proprio da qui. La situazione in Siria è ancora drammaticamente tesa ed è facile ritenere che, appena si insedierà nuovamente alla Casa Bianca, il presidente tornerà a rafforzare le relazioni diplomatiche tra Washington, Ankara e le monarchie del Golfo, ormai pienamente entrate nel meccanismo del mercato internazionale e nel “giro che conta” attraverso società, holding e fondazioni culturali. Resta da vedere chi sarà scelto per guidare il Dipartimento di Stato e il Dipartimento alla Difesa, tuttavia è lecito supporre che l’obiettivo principale indicato nel prossimo Rapporto Quadriennale resterà quello di colpire la Repubblica Islamica dell’Iran, appoggiando qualunque progetto possa contribuire a cancellare ciò che resta della “dorsale” politicamente non-sunnita (cioè panaraba o sciita) e dare il via all’edificazione del Grande Medio Oriente, sotto le lugubri insegne dell’Islam politico proposto dalla Fratellanza Musulmana e dalle monarchie della Penisola Arabica. Questa generale ridefinizione della mappa del Medio Oriente contribuirà a rafforzare il ruolo della Turchia, nella misura in cui la profondità strategicapromossa da Ahmet Davuto?lu dovesse tornare ad influenzare con forza la politica estera di Ankara lungo le due pericolosissime direttrici del panturchismo e del panislamismo. Per Europa, Russia e Cina, le conseguenze di una simile operazione sarebbero devastanti, anzitutto in termini di sicurezza collettiva, ma anche sul piano economico, visto l’interesse che gli sceicchi nutrono per molte delle compagnie e società italiane, spagnole, greche o portoghesi ormai sull’orlo del fallimento.
La rielezione di Barack Obama alla Casa Bianca, dunque, non può rassicurare nessuno e il giubilo di gran parte della stampa italiana è senz’altro fuori luogo. Il suo ritorno è anzi un fattore di estremo pericolo, lasciando aperta la porta ai peggiori progetti imperialisti che potrebbero ripetere quanto svolto in Libia anche in altri Paesi dell’Africa e del Medio Oriente, con nuovi interventi aeronavali di “supporto” a gruppi di ribelli improvvisati o infiltrati. La spesa militare degli Stati Uniti è infatti passata da 689 miliardi di dollari nel 2010 a 711 miliardi di dollari nel 2011, lasciando intendere che alla fine del 2012 sarà cresciuta ancora, consolidando l’incontrastato primato militare della superpotenza nordamericana sul resto del pianeta. La Smart Defense – discussa in occasione dell’ultimo vertice NATO a Chicago e presentata da Hilary Clinton come la naturale evoluzione del piano di riduzione del bilancio statunitense definito da Robert Gates e Leon Panetta negli ultimi due anni – partirà in concreto soltanto dopo il 2013, e tuttavia sarà una semplice operazione di parziale e progressivo travaso, che sposterà una parte delle spese statunitensi verso gli alleati europei della NATO. Tutt’altro che un “taglio pacifista”.
Sul piano interno, le promesse di Obama in merito al riassorbimento di migliaia di lavoratori finiti in layoff (la drammatica “cassa integrazione” americana) per via della crisi economica mondiale, non potranno essere mantenute. La spesa sociale, infatti, dovrà essere drasticamente ridotta a causa di un debito pubblico che proprio negli ultimi giorni ha raggiunto la quota record di 16.000 miliardi di dollari (pari ad oltre il 140% del PIL nazionale), parte del quale è stato accumulato proprio negli ultimi quattro anni sotto l’amministrazione Obama al fine di salvare, coi fondi pubblici, tutti i colossi bancari detti “too big to fail” (troppo grandi per fallire), ad eccezione di Lehman Brothers. Considerando che il rapporto deficit/PIL in Italia è al 120%, verrebbe da porsi seri interrogativi sulla motivazione per cui il grado di “affidabilità finanziaria” del nostro Stato sia stato ripetutamente declassato dalle principali agenzie di rating (statunitensi) ed il nostro Paese sia stato costretto ad un rapido cambio ai vertici dell’esecutivo in favore di un governo tecnico e non eletto, insediatosi nel novembre del 2011 proprio con la benedizione di Obama.
Mentre personaggi come Pietro Sansonetti si sperticano nell’esaltazione della magnificenza obamiana, immaginando, anche in America, un fantomatico scenario di confronto tra “destra classista” e “sinistra assistenziale”, tra malvagi imprenditori e caritatevoli oppressi, sarebbe bene riflettere per un attimo sui motivi che hanno spinto George Soros e Roger Altman a regalare rispettivamente 1 milione di dollari e 300.000 dollari a Barack Obama per la sua campagna elettorale. Generosità tra amanti del welfare?
Fonte: http://www.statopotenza.eu/5008/con-la-rielezione-di-obama-quali-scenari#.UJwfQKH8VJk.facebook