Anno uno, con i suoi giovani in prima linea, guidati dalla signorina Innocenzi, mette in scena lo spettacolo tragico dell’inettitudine politica della generazione dei ventenni. Seduti a cerchio nello studio dibattono l’uno contro l’altro per assicurarsi il premio preferenza come fossero un tronista di Maria De Filippi. Una twittata e la gara è vinta. I temi sono quasi sempre quelli del lavoro e del paese che non funziona e delle soluzioni individuali alla crisi. Una falsa eguaglianza percorre il cerchio magico dei ragazzi e delle ragazze: accanto al megalaureato alla London School of economics che ha aperto -toh che novità- una azienda c’è il nero che, orgoglioso, dice di mantenere la sua famiglia e il diciottenne milanese che abita alla case popolari e non spera più -a ragione- in niente. Nel narcisistico falso io dello specchio magico della Tv tutti sembrano uguali e dotati di eguali opportunità. Ma i muri tra una classe e l’altra tra una razza e l’altra che ciascuno di loro rappresenta persistono nell’orgia felice in cui ciascuno si mostra. Gli anni ’80 e ’90, con il loro lavorio sulla distruzione del pensiero sociale e politico di sinistra vanno in scena con i volti delle loro vittime ad Announo. La generazione dei ventenni non si interroga sulle trasformazioni del mondo che hanno sottratto loro il futuro ma su come arrabbattarsi nelle condizioni date. Dunque ecco quello che dice che per tirare a campare farà tre lavori; quello che non spera perché non ne trova nemmeno uno; cinesi e neri che sperano di entrare nella società dei vincenti con spregiudicatezza. Su che lavoro fare non volano alto: si accontentano di un precariato massacrante e di mansioni umili. Nessuno di loro è consapevole che la crisi attuale ha distrutto il lavoro e dissolto il sapere umanistico in favore del pragmatismo industriale: oggi il concetto di persona è una merce che si dipana nei mille rivoli del marketing. Nessuno di loro ha capito che non ce n’è per nessuno tranne che per i figli parenti e nipoti dei signori delle élite che faranno studiare la prole nelle costosissime università americane e inglesi. Questa generazione non è solo oggettivamente sfortunata ma oggettivamente stupida. A parte qualche fiammata qua e là di incipiente critica al debito, essa non ha saputo cogliere l’occasione storica fornita dalla crisi per rilanciare il tema del diritto al lavoro. I sacrosanti diritti civili senza la giustizia sociale sono niente. La società che li umilia -e chissà che non ci provino gusto- viene adorata e non messa in discussione come fonte de loro mali. Il paradosso è che, cresciuti nel consumismo non potranno più consumare e aspireranno, perennemente frustrati ad un modello di vita irraggiungibile per i più. Ad Announo va in onda una generazione zero. Una generazione che non fa niente per rovesciare lo scacchiere dei poteri in gioco e si accontenta di un misero reddito senza diritti, costretti a macinare consumi senza avere il potere sociale che essi implicano. I “giovani” di Nanni Moretti in “Ecce Bombo” magari non studiavano per l’esame di maturità ma avevano fantasia e si divertivano a usarla per inventare nuove relazioni. Ed erano una generazione vera che col ’68 ha sfidato i sepolcri imbiancati e anticipato quel senso di globalità che oggi viviamo. La generazione zero di Giulia Innocenzi è opaca e debole: della fantasia non sa che farsene, punta a vent’anni alla dichiarazione dei redditi, si aggira triste nelle discoteche, non fa famiglia, tanto ci sono le amiche. Il nichilismo cinico dell’élite mondiale li ha distrutti preparandoli ad essere schiavi senza mente. Ed a dubbie santone dell’economia che li stimolano ad investire in bar e ristoranti perché “ bisogna rischiare” stupisce che nessuno si alzi dal cerchio e non la mandi a quel paese.
Stefania Pavone, collaboratrice di Cogito Ergo Sum e giornalista free-lance per Le Monde Diplomatique