Chi si ricorda il processo di Khartoum il cui documento titolava “EU-Horn of Africa Migration Route Initiative”? Era il 28 novembre 2014 a Roma. E il Migration Compact dall’originale fattura made in Italy? Il documento risale alla primavera 2016. L’obiettivo era quello di trovare una soluzione alla più attuale tratta di uomini, donne e bambini, cioè al più recente spostamento di persone che viaggiano senza validi documenti d’identità e di ingresso. Il tutto si può riassumere in una strategia di “cooperazione internazionale fatta da un lato per bloccare le partenze (progetti di investimento, titoli finanziari, lotta ai trafficanti, compensazioni di varia natura), evitare lo sballottamento di profughi da un paese europeo all’altro, “riammettere” gli espulsi nei paesi di origine; dall’altro per offrire un’alternativa credibile agli arrivi illegali, aprendo a nuovi ingressi legali per motivi di lavoro, cioè integrare in un mercato del lavoro vulnerabile quei pochi migranti altamente qualificati generando illusioni di futuro prive di senso” (Unimondo, 21 maggio 2016).

Cosa è accaduto dal 2014 e in particolare in questi ultimi otto mesi? Quali effetti ha prodotto il compact? Più che di incentivi europei allo sviluppo finalizzati a gestire alcuni fattori di spinta delle migrazioni, quelli che sono stati pattuiti sono più degli incentivi alle polizie e alle varie forze di sicurezza più capaci nel bloccare i migranti, sull’esempio di quanto già fatto con la Turchia nel marzo 2016. Ma se ci limitassimo ai soli numeri, il patto ha prodotto ben poco anche da questo punto di vista. Secondo i dati del Ministero degli Interni al 30 dicembre, il 2016 si chiude con la registrazione di 181.283 persone approdate in Italia (+17,84% rispetto al 2015; +7,08% rispetto al 2014).

L’11 dicembre 2016 è stato concluso, nell’ambito appunto della politica del “patto migratorio”, il primo degli accordi tra l’Unione Europea e un paese africano, il Mali, al fine di facilitare i rimpatri dei migranti le cui richieste d’asilo in Europa sono state denegate. È appunto all’11 dicembre che risale la visita di Bert Koenders, ministro olandese degli affari esteri, in rappresentanza di Federica Mogherini, l’alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri.

I negoziati erano in corso con il paese africano fin dall’aprile 2016 in continuità con gli impegni presi a Malta nell’ambito del vertice sulla migrazione dell’anno precedente durante il quale l’attenzione è stata posta più sulla questione dei rimpatri che sulla realizzazione di una cooperazione virtuosa. Infatti, l’accordo con il Mali prevede, al primo posto, il rinforzo delle capacità dei servizi di sicurezza maliani nello svolgimento, con competenza e correttezza, delle funzioni di controllo e quindi di blocco, in secondo luogo prevede l’identificazione dei migranti irregolari con l’assistenza di funzionari maliani in Europa e la fornitura dei documenti per il rientro in patria. In coda a tutto, sono previste anche delle iniziative per rilanciare l’occupazione giovanile in Mali. Negli stessi giorni è stato raggiunto anche l’accordo con il Niger, che insieme a Mali, Senegal, Etiopia e Nigeria, collabora con l’UE per frenare le partenze dalla Libia verso l’Italia. Tra parentesi, sono stati stanziati a metà dicembre 2016 610 milioni di euro di nuovi aiuti europei anche al Niger con l’intento di “dare una mano” nella lotta all’emigrazione irregolare vista la sua rilevanza come paese di transito.

Ma torniamo in Mali dove il 21 dicembre 2016 il governo di Ibrahim Boubacar Keïta, presidente dal 2013, ha ricevuto una mozione di sfiducia dal parlamento (l’assemblea nazionale) – è la terza dall’inizio del suo mandato – a causa di una polemica che ha per oggetto il compact con l’UE per la lotta all’immigrazione irregolare. La mozione è arrivata dall’URD (Union pour la République et la Démocratie), il partito di opposizione di Soumaïla Cissé. L’emigrazione non è l’unico elemento della disputa, in mezzo ci sono varie questioni legate alla politica interna, tra cui l’organizzazione delle elezioni comunali e l’insicurezza sul territorio nazionale. Ma la questione chiave è legata agli accordi per il rimpatrio degli emigrati maliani in Europa che si trovano in situazione irregolare. L’opposizione accusa la mancanza di trasparenza nella definizione degli accordi e soprattutto la scelta del governo di favorire i rimpatri dei propri emigranti.

Secondo il Ministro degli affari esteri, Abdoulaye Diop, è stato preso per “accordo” qualcosa che ancora non lo era. Secondo la voce del ministro quello diffuso l’11 dicembre scorso non era altro che un “comunicato” congiunto. Per l’opposizione invece si tratta ancora una volta di un grande imbroglio e di un reverenziale consenso verso una richiesta europea alla quale il Mali non ha voluto-potuto sottrarsi.

L’affare è sotto gli occhi di tutti: non è un segreto che dei funzionari maliani siano già stati inviati in Germania per l’identificazione di alcuni migranti. Anche se le fonti ufficiali sembrano smentire la firma dell’accordo, esso sembra invece essere ben entrato in vigore.

Oltre alle polemiche politiche, però anche i fatti di questi ultimi giorni hanno contribuito a gettare fuoco su un clima già fortemente incendiato.

Il primo risale alla vigilia di Natale quando il Ministro dei maliani all’estero, Abderrahmane Sylla, era di rientro da una missione in Francia dove si era recato per spiegare che alcun accordo era stato firmato con l’UE. Sul suo volo Air France del 24 dicembre volava un maliano ammanettato, espulso dal territorio francese perché irregolare. È su un video, che la rete trattiene e diffonde in modo virale, che viene ripreso il Ministro mentre chiede che la persona venga liberata. La diaspora maliana si infiamma e aumenta pure la collera di chi in patria mal sopporta l’attitudine delle autorità europee. Le questioni sono profonde, soprattutto quando si affonda il dito nella piaga mai del tutto risolta delle relazioni coloniali.

Ma la sofferenza non finisce perché il secondo episodio non tarda ad arrivare. Era il 29 dicembre quando a due maliani in arrivo dalla Francia all’aeroporto di Bamako in possesso di lascia passare europeo è stato negato l’accesso al suolo maliano e sono stati riaccompagnati “alla frontiera”, cioè fatti risalire sugli stessi aerei dai quali erano scesi.

In modo intransigente, in chiusura del 2016, il governo del Mali ha voluto dimostrare il suo disaccordo nei confronti dell’uso di questo documento per espellere e rimpatriare maliani o presunti tali. Per il Mali, i lascia passare emessi da uno stato europeo al fine di forzare l’espulsione di una persona in situazione irregolare non sono considerati validi e la persona in possesso può quindi essere respinta. Contraddizioni. Incapacità di gestire un momento complesso. Respinti alla frontiera del proprio stesso paese, senza patria, in balia di procedimenti burocratici che talvolta risultano più vincolanti e denigranti delle manette ai polsi. Così inizia il nuovo anno in Mali e per i maliani all’estero. È urgente che il governo maliano si pronunci in modo chiaro in materia di politica migratoria per dare risposte credibili a chi le frontiere le ha attraversate e a chi continuamente le vive senza neppure spostarsi. 

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